Joana Saraiva
Conosco tutti i battiti. So perfettamente come ogni battito mi colpisce sui piedi, sulle spalle e sulla punta delle dita.
So ballare fino alla punta delle mie dita, e perfino alle mie dita! – sapere come battere a tempo di musica.
Funcionamos em cadeia, a música e eu.
Lavoriamo in tandem, io e la musica.
Ho il controllo del ritmo e il ritmo ha il controllo di me. È bello quando è così, quando mi perdo e passo la leadership a un’altra mano.
Quando do la mano all’ignoto, quando sono solo catarsi, quando vado – quando vado, basta – senza nemmeno sapere esattamente dove, ma vado comunque perché non andare non è nemmeno un’opzione. (Se provi a concentrarti solo sul basso, giuro che galleggerai. Giuro che il ritmo viene dalle tue viscere.
Giuro che ti senti più te stesso, più vicino a te stesso, più vicino alla migliore versione di te stesso!)
A volte mi perdo. Mi perdo apposta perché mi annoio. Mi perdo nella mancanza di controllo del ritmo, mi ridisegno in altre forme, ad altre velocità. Né tu né io mi conosciamo più, ed è proprio il ritornello che stavo cercando. Adesso non possono definirmi nell’imbarazzo, indovinarmi nella costrizione, trovarmi solo nelle forme. Li ho uccisi, le forme, quando ho perso il controllo del ritmo.
L’occasione solenne richiedeva un rossetto abbinato: rosso, ovviamente. I capelli meritavano un ornamento da festa, così ho fatto sbocciare una rosa sotto l’orecchio sinistro: rossa, ovviamente. Quando ho alzato le braccia verso il cielo, il raso mi è scivolato tra le mani, le braccia, poi il petto e la pancia. E quando finalmente ho sentito la cucitura tre dita sopra il ginocchio e l’ultimo bottone del vestito chiudersi sulla schiena, sono cresciuta di tre centimetri: il display era perfettamente dove doveva essere. Poi è avvenuta la magia: scolpite tra alcuni collant di vetro nero, le mie gambe, le mie cosce e i miei fianchi hanno raggiunto una maturità invidiabile. I fianchi erano rifiniti ai piedi quando ho calzato i tacchi di vernice, et voilà, dal candido “primo ventennio” sono passato alla solennità del “quasi trentenne”. (Avrei poi saputo che guadagnare una manciata di molle nell’intervallo non sarebbe mai più stato motivo di euforia. Comunque, per ora, ho ringraziato il miracolo).
Il modulo è stato ridisegnato. Questa mia versione 2.0 era pronta a perdere il controllo nel ritmo. Il battito non sapeva cosa lo aspettava quando sono apparso, come mai prima d’ora sicuro di me stesso; più che mai pronto a reinventarmi, a lasciare che i bassi della musica mi guidino nuovamente nel percorso in cui sono più me stesso. Conosco perfettamente tutti i battiti e come mi colpiscono sul corpo. So perfettamente cosa farò quando si accenderanno le luci e senza esitazione sarò superbamente, esisterò senza imbarazzi e senza costrizioni. Quando ballo mi sento così, più me stessa. Il mio corpo non porta didascalie, e non le voglio per niente.
Le didascalie, però, insistono a prendere piede e mi arrivano sotto forma di foglio A4 e profumate di inchiostro fresco di stampante. “Sei quello con la rosa!” Mi hanno detto. Essere quello con la rosa, spiego, significa che è la rosa a contraddistinguere con orgoglio quelle che sono le mie linee. Vuol dire che sotto la rosa ci sono lettere scritte e di conseguenza parole che sta a me decifrare, leggere e dire ad alta voce. Questa mia versione 2.0, anche se non vedo alcuna lettera, era pronta a prendere il controllo del caso. Il caso inizia con la riga prima del rosa, si estende sulla comprensione di quanti altri colori avrebbero letto insieme a me le lettere sconosciute, e si conclude con il tema della festa: così è stato, e con questa informazione ero già prendendosene cura.
Ci chiamavano con ritmo decrescente e il mio cuore, fuori ritmo, lo sentiva contro le dita sudate e intrecciate nel “J+C” sepolto in un secondo cuore bagnato d’amore e d’argento. La stanza era piena, l’aria era calda. C’era un residuo di rossetto rosso sul colletto del mio vestito 3 cm sopra il ginocchio e non volevo saperlo né preoccuparmi. Quando le luci mi hanno abbagliato per la prima volta e quando ho realizzato per la prima volta che la stanza era piena, ho preso il controllo del ritmo. Assicuravo l’ingresso preciso a chi mi diceva: “parli dopo di me, ok?” OK. E quindi l’ingresso era pulito, ovviamente: lo è sempre. Alla carta piena di codici, per me indecifrabili, strizzavo ogni tanto l’occhio, per timore che pensassero che l’inchiostro della stampante e quello rosa del pennarello fossero stati vani. Ho calcolato il ritmo delle parole degli altri, la dimensione della mia macchia rosa rispetto alla loro, e sono partita. Proprio questo, sono andato. Le ho uccise, quelle parole, quando ho perso il controllo del ritmo. Li ho fatti ballare nella mia bocca e acquisire potere nei miei occhi. Ho riscritto la mia danza quando ho dato mano all’ignoto e mi sono reinventata senza forme e senza didascalie. Questi che mi sono stati donati – o tutti gli altri che potrebbero capitarmi – li metto sul mio corpo: identifico il loro significato, uccido la loro forma e li resuscito nella musica. Nessuno sapeva – e non saprà mai (o almeno lo spero) – se seguissi la coreografia. Se rispettassi retoricamente le virgole e le interiezioni oppure il “due a sinistra, due a destra”. Se ti concentri solo sul basso, se chiudi gli occhi e lasci che il ritmo sia il tuo ossigeno, nessuno lo saprà mai.
Sono la mia versione 2.0.
Sono il mio ritmo, sono il mio testo, sono la mia protesta e non voglio didascalie per nulla.
Per lei che ha cura del proprio mondo